Il paradosso di Google

Google nasce da menti geniali che non erano incastonate in schemi predefiniti dalla società, dal governo, dal senso comune o da i resti di un’educazione antica.

L’idea di liberarsi da certi inutili orpelli e vincoli (la rivoluzione digitale) ha portato a qualcosa di completamente nuovo e straordinario; prova ne è che oltre ad essere una azienda molto grande coinvolge le persone anche sul piano emotivo (non solo economico/finanziario).

L’intelligenza sopraffina che ha portato al rapido successo, tra le varie, ha proprio la caratteristica di essere libera, disinibita non ancorata a logiche del passato.

La visione che c’era alla base ha portato a ideare un sistema efficientissimo e soprattutto libero da regole imposte, obblighi e fastidiose interferenze di entità superiori che non si sa mai bene che cosa fanno.

Strada facendo, però, con l’aumento esponenziale di informazioni e, soprattutto, attori (per effetto del web 2.0 tutti vogliono dire tutto su tutto online), la logica Google sarebbe collassata e diventata una robetta ordinaria.

Il modo migliore per risolvere questa situazione è adattare le mosse umane alle esigenze macchina (il contrario è infinitamente più difficile).

Questo è il più grande crimine che l’intelligenza possa commettere: adattare il problema alla soluzione.

Un po’ come il medico che prescrive placebo al paziente per farlo stare buono invece di individuare e curare la malattia.

Ma un criterio che in base a regole macchina produce i risultati migliori per l’utente, porta, inevitabilmente, i fabbricatori di contenuti ad omologarsi (ma senza essere costretti) e a produrre tutti sempre la solita minestra.

Perché funziona (se funziona)?

La maggior parte delle persone tende all’omologazione, alla semplificazione, alla routine e alla ritualità. In altre parole evita di pensare perché troppo faticoso e/o spaventoso.

Quindi tutto l’ecosistema Google nato dall’idea della libertà individuale di fare ciò che si vuole abbattendo le regole, la morale, il controllo centralizzato, spinge gli utenti in un recinto centralista di regole di comunicazione ‘standard’ (definito da chi non si sa) per cui è ovvio cosa si cerca ed altrettanto ovvio cosa si trova.

Il tutto per avere i risultati migliori; questa non è poi tanto geniale. È un po’ come dipingere un quadro e contemplarlo ogni giorno pensando che sia esattamente ciò che c’è la fuori.

Alla fine è sempre la solita solfa: i rivoluzionari non vogliono smantellare un sistema decadente e ingiusto per farne uno migliore, vogliono solo prendere il posto di coloro che avevano il potere.

E anche se all’inizio le intenzioni sono buone (di solito lo sono) e si ottengono dei benefici, alla fine il potere corrompe (logora chi ce l’ha e chi lo vorrebbe).

Come funziona in sintesi

I robottini di Google (web crawler, spider o robot in realtà sono software in funzione h24 che aprono ciclicamente ogni sito web esistente su Internet) si mettono a leggere tutte le pagine di un sito e creano indici delle pagine e dei contenuti.

Il risultato che si ottiene consta di database con montagne di dati da cui si ottengono delle liste in base ai parametri di ricerca (es. una parola).
A questo punto non basta solo la lista. In qualche modo deve avere un senso compiuto.

Dato che il web semantico è un altro paradosso perché pretende di definire il significato dei segni che per effetto dello stesso web mutano in continuazione (e quindi sono indefinibili per definizione), per avere maggiore pertinenza e considerando vari aspetti della semantica (cioè cosa intende la gente quando usa un termine in un certo contesto) l’idea è di stabilire delle regole a monte al posto degli algoritmi.

Regole che hanno due scopi principali: uno riguarda il contenuto (capiamo di cosa parliamo) l’altro riguarda la presentazione dei risultati (l’aspetto finale).

Il concetto stesso di regola porta all’uniformità e infatti quasi tutti i blog, siti istituzionali e canali informativi in genere tendono ad esprimersi sempre nello stesso modo e formato.

Esistono strumenti appositi per chi scrive sul web che ti dicono se ci sono troppe o poche parole in un articolo.

Se è troppo lungo è considerato di difficile lettura (per chi? L’analfabeta funzionale?).

Come si fa a determinare con un algoritmo se un testo è troppo lungo senza valutare il contenuto. Qualsiasi argomento al mondo potrebbe essere sviluppato all’infinito; quale sarebbe il limite e secondo quale canone?

Addirittura gli strumenti ti indicano se il titolo appare o meno nel contenuto dell’articolo (almeno una volta rende la lettura più facile) distruggendo qualsiasi capacità poetica o creativa ma riducendo tutto ad un modulo governativo da compilare.

Però… che libertà!

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